Le dame

Le dame

 

Alle 07:38 di un giovedì di giugno uguale a tutti i giovedì di quello stesso mese, Paolo, il fruttivendolo all’angolo di Piazza Armi, infilzava il cartellino del prezzo sull’indivia che quasi un’ora prima aveva finito di sistemare. Lorella, l’estetista di via Petrarca, apriva le due buste che qualche minuto prima aveva prelevato dalla cassetta postale del suo locale. Delle due buste, una conteneva una poesia di Prevert imbucata da qualche misterioso spasimante, l’altra conteneva un bollettino da pagare. Karim, il barista di Bar Italia di Corso Tobruck, finiva di riempire d’acqua il secondo dei due bicchieri che aveva poggiato accanto ai due caffè macchiati ordinati da Angela, titolare del negozio di abbigliamento “Reves et dames” di fronte al Municipio in via Savonarola, e Assunta, funzionaria dell’ASL di via Conte Ugolino.

 

Pochi minuti più tardi, mentre nei cantieri e nelle campagne si accendevano le sigarette della prima pausa, le due signore, amiche da oltre dieci anni, uscivano dal bar, svoltavano a destra ed imboccavano l’area pedonale di via Savonarola. Angela fissò Assunta sgranando gli occhi e, alzando quanto più possibile le sopracciglia, si rivolse all’amica con il tono drammatico con cui una devota peccatrice si rivolge al suo confessore:

– Ma ti rendi conto, Antonio e Carla a fare i fannulloni avvicendandosi dietro la cassa ed a servire ci mettono lo straniero di turno… arabo direi. Evidentemente gli affari vanno alla grande se di questi periodi possono permettersi un dipendente…

– Senti cara, per me il fatto è un altro, quello lì è uno straniero e, come dici tu, arabo per giunta. Quelli come lui vengono da noi, gli danno subito un lavoro perchè tanto chiedono la metà di quello che chiederebbe un italiano, poi, per usare un eufemismo, ti seducono la figlia e, pur di ottenere la cittadinanza, sono disposti a sposarla ed a fingersi innamorati di lei e dell’occidente civile.

– Già, ed una volta sposato ecco che di colpo si ricorda di essere un musulmano osservante e devotissimo alla sua religione che ovviamente imporrà a suon di botte alla sua povera moglie.

– Che poi, scusami, quei due non hanno un figlio che sta a girarsi i pollici dalla mattina alla sera?

-Matteo, si chiama Matteo. Ufficialmente è all’università anche se quest’anno compie trentatré anni

– Figurati!. Ah mio Dio che situazioni, non si possono neanche raccontare per quanto sembrino assurde.

 

Mentre l’ultimo camioncino della raccolta differenziata lasciava le strade del centro per dirigersi verso le periferie, le due amiche procedevano confabulando e rumoreggiando con i tacchi sui sampietrini di via Savonarola. Alle 07:47 le sale di attesa dei medici erano già piene di pensionati e, mentre il farmacista esponeva in vetrina una crema antirughe dagli effetti miracolosi, Angela entrava nel suo negozio ed invitava Assunta a dare un’occhiata agli ultimi arrivi. Assunta guardava con attenzione mista a voracità e chiese informazioni sul cappello azzurro che faceva sicuramente pendant con una borsa che aveva visto la settimana precedente.

– Buon occhio non mente mia cara, disse Angela appoggiando la sua mano sulla spalla dell’amica, è il fiore all’occhiello dell’ultima collezione presentata da questa casa francese che io reputo una delle migliori in assoluto.

– Ne ho visto uno simile indossato da Cinzia … credo fosse Domenica davanti alla Chiesa. Mi sbaglio?

– Dici bene, SI-MI-LE ma non uguale. Quello di Cinzia, nonostante le arie da regina d’Inghilterra che si dava, è solo cineseria. Chissà con che porcheria è fatto e le rifiniture poi… a dir poco grossolane.

– Non sarebbe una novità, vista la tipa. Ok cara ti saluto, devo scappare in ufficio. Passo io per il pranzo.

 

Alle 07:53 mentre Karim tirava fuori il cestello dalla lavastoviglie, Angela aumentava il prezzo del cappello di un buon venti per cento, accendeva la radio ed apriva al pubblico il suo negozio con la soddisfazione data dalla consapevolezza che il fato, o chi per lui, insieme ai caldi raggi del sole di Giugno, avrebbe portato, presto o tardi, un nuovo cliente.

 

Alle 08:03 Fausto, il panettiere, rientrava a casa con il suo furgone dopo aver completato il giro di rifornimento giornaliero fatto di due supermercati e nove generi alimentari. Nello stesso istante, alle sue spalle, passa l’utilitaria rossa di Cristina che anche oggi porterà con qualche minuto di ritardo suo figlio Giovanni a scuola. Quando la macchina di Cristina imbocca via Conte Ugolino, Assunta è già entrata nell’immenso cubo di cemento-armato dove sono ubicati gli uffici della ASL. Aspetta senza fretta l’ascensore che la porterà nel corridoio del primo piano dove, in fondo a sinistra, c’è la porta in rovere sbiancato del suo ufficio. Alle 08:07 Assunta accende il suo PC, controlla l’agenda, apre il primo dei tre cassetti posizionati sotto la scrivania dal lato destro della stessa, tira fuori un post-it e chiama il numero che vi è scritto sopra:

– Buongiorno signora Daniela, se riesce a venire entro le 09:00 posso riceverla.

 

Riaggancia il telefono, dal secondo cassetto tira fuori un posacenere da borsetta, si accende una sigaretta e fissa lo sguardo sul “divieto di fumo” posto accanto alla porta d’ingresso dell’ufficio.

 

Alle 08:37 Francesco, dipendente della carrozzeria F.lli Caldetti, finiva di rabboccare l’olio alla berlina del Dottor Maresca che, nel medesimo istante, firmava una ricetta per un antidolorifico per un paziente afflitto da artrosi. Daniela entrava nell’ufficio di Assunta, le lacrime le aveva lasciate a casa insieme al marito ed alla badante che era costretta a pagare ad ore in attesa di un accompagnamento che tardava ad arrivare. La rabbia e la frustrazione l’avevano invece seguita ed entravano a braccetto con lei dandole le forze per sostenere una busta pesante ed ingombrante. L’orgoglio decideva di abbandonarla sull’uscio e, non entrando, la costringeva ad un buongiorno appena bisbigliato e con gli occhi rigorosamente bassi.

-Buongiorno Daniela, prego siediti pure. Ho preferito farti venire a quest’ora perchè dalle 09.30 qui è una bolgia e non ho il tempo neanche per respirare. Allora, veniamo al dunque, io la pratica l’ho completata. Ho fatto molte pressioni e neanche t’immagini quante ore sono stata al telefono per cercare di accelerare i tempi e per fare in modo che questi fogli non rimanessero chiusi in qualche cassetto.

Assunta agitava i fogli in calce ad ognuno dei quali vi era la sua firma. Daniela muoveva lentamente il capo in avanti facendo degli impercettibili segni di assenso. Poi d’improvviso si ricordò che in fondo l’orgoglio era fuori dalla porta, si ricordò del marito malato e dei due soli zero della sua pensione:

-Dottoressa, io la ringrazio, ho aspettato sei mesi per l’accompagnamento e volevo esprimerle la mia gratitudine con un piccolo regalo che spero non urti la sua sensibilità.

 

Alle 08:51 Daniela scendeva le scale che dal primo piano portavano al pian terreno dell’immenso ufficio pubblico. Piangeva a dirotto, i fogli stretti in una mano e l’altra libera dal fardello della busta, i passi pesanti nonostante la voglia di scappare, di nascondersi. Mentre usciva dal palazzo Maria realizzava che non si sarebbe mai assolta, che la sua pena sarebbe stata il ricordo di quegli attimi, di quel baratto, l’immagine di quella borsa color azzurro che faceva pendant con il cappello dello stesso colore esposto nel negozio di abbigliamento in centro. Gli occhi colmi di soddisfazione di Assunta, i fogli agognati nelle sue mani ed i suoi occhi che iniziavano a riempirsi di quelle lacrime che, pur se lasciate a casa, non tardavano a raggiungerla.

Scivolava la città, scivolavano le strade, scivolavano persone agli angoli di occhi sempre più bassi e sempre più umidi, Daniela sapeva che ora tutto quello che sarebbe arrivato avrebbe avuto un passato. Alle 09:47 Daniela pose i fogli in un faldone che sarebbe stato nuovamente aperto e richiuso solo tre anni più tardi alla morte del marito.

 

Alle 11:00 il signor Antonio De Ribeis, insegnante in pensione, esce dal palazzone pubblico, percorre via Conte Ugolino, imbocca via Savonarola, entra nell’unico negozio di abbigliamento della via e chiede di un cappello di una tal casa, di una tal collezione. Angela corregge la pronuncia del nome della tal casa e poggia il cappello sul bancone:

-Lo prende?

-Si lo prendo.

-Vuole una confezione regalo?

– Non è un regalo … ma lo incarti ugualmente.

Alle 11:42 Antonio De Ribeis passa davanti alla chiesa del Sacro Cuore dove, cinquantadue anni prima, alla stessa ora, aveva risposto affermativamente alla domanda di Don Martino. Una domanda simile a quella che lui stesso aveva posto, qualche anno prima, a Maria De Monaci. Mentre radio e giornali parlavano e scrivevano delle battaglie calcistiche di Santiago, mentre Andy Warhol esponeva per la prima volta a New York, mentre a Londra si registrava l’esordio dei Rolling Stone, in una casa sobriamente arredata, Antonio e Maria si amavano con la complicità dei loro corpi giovani e di un letto fatto apposta per starci in due.

 

Il tempo non è lo spazio tra i numeri di un orologio. Per i sognatori si misura con i sogni, per i nostalgici con i ricordi, per i più cinici il suo scorrere lo si calcola con i segni che lascia sul nostro corpo. Per Antonio è sempre stato una condizione naturale a tutto ciò che vive, fino a quando a qualcuno non è venuto in mente di rendere il tempo un artificio utile per ricordare a se stessi sia di assaporare ogni momento bello e propizio e sia di sopportare ogni tipo di sventura poiché tutto è mutevole e tutto è destinato a diventare passato, ricordo o rimpianto. Aveva imparato ad amare i segni del tempo sul corpo di Maria prima dell’arrivo di quella che molti definirono una disgrazia ma che lui e la moglie accettarono come una eventualità remota ma possibile. L’amava, amava prendersi cura di lei, sapeva che sarebbe arrivato il tempo in cui avrebbe sentito la mancanza di tutto questo.

Alle 21:37 Antonio toglieva i tre cuscini posti sotto la nuca di Maria e la preparò per la notte. Sentiva il tempo sulle sue ossa,sui suoi muscoli,sentiva la paura di realizzare che ormai era troppo vecchio per prendersi cura di lei. Temeva che la paura potesse diventare prima disperazione e poi semplice ed evidente realtà. Guardava il pacco regalo sul divano, forse quella disperazione non sarebbe mai arrivata, forse poteva invecchiare con maggiore serenità barattando la paura con un pessimo ricordo. Non restava che prendere il libro sul comodino, “La mite” di Dostoevskij, sedersi sul bordo del letto dalla parte di Maria ed iniziare a leggere, iniziare a prendersi gioco del tempo, di quelle pareti e dei loro corpi incapaci di rincorrere i loro pensieri che, alla luce di una lampada, condividevano una storia che entrava a far parte della loro storia.

*tratto dalla raccolta “RacCorti” di Tony Mariotti

 

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